venerdì 27 settembre 2013

The Twilight Samurai – Il samurai del crepuscolo

Sanada Hiroyuki che nelle sale giapponesi è il guerriero corrotto Yashida in lotta contro Wolverine è stato The Twilight Samurai nel 2002 per Yamada Yōji, protagonista del primo capitolo della trilogia dedicata agli antichi guerrieri del maestro giapponese. Il film fu poi seguito da The Hidden Blade (2004) e Bushi no Ichibun – Love and Honor (2006). La pellicola pluripremiata (ottenne anche la nomination all’Oscar come miglior film straniero) - e purtroppo poco conosciuta nel nostro paese - si ambienta all’epoca del declino dei samurai e narra la storia di Seibei Iguchi un guerriero di classe inferiore. Addestrato ad uccidere ha ormai rinunciato a farlo dedicando la sua esistenza alla famiglia. Vedovo, vive in modo umile accudendo le due figlie e la madre malata. Poiché rientra ogni sera dal lavoro al crepuscolo gli altri samurai l’hanno soprannominato Tasogare Seibei.
Educa le figlie con molta dolcezza, aiutandole a sviluppare la loro intelligenza e le loro attitudini, davvero insolito in un mondo nel quale le donne erano sottomesse e ritenute inferiori. I guai arriveranno quando la bella Tomoe (Miyazawa Rie) il suo amore di sempre divorzierà da un marito brutale... Un film intenso e poetico, elegante e malinconico. Un uomo che ha deciso di abbandonare le regole del proprio rango, di scegliere l’umanità e il sentimento invece della guerra e della violenza è costretto a chinare la testa di fronte al dovere, all’obbedienza. Tornerà a combattere perché è il suo destino. Diviene pertanto simbolo di un’intera casta, emblema del crepuscolo di un’epoca di guerrieri.

venerdì 20 settembre 2013

The Grandmaster – Elegante affresco di un’epoca poco gradito ai giapponesi

L’ultima opera di Wong Kar-wai The Grandmaster è l’elegante e raffinato affresco di un’epoca e di un mondo ormai scomparsi. E i giapponesi non avranno certamente gradito lo schierarsi del regista al fianco della grande madre Cina mostrando i nipponici (si tratta dell’invasione della Manciuria e della seconda guerra sino-giapponese) come crudeli e sanguinari conquistatori. Il Kung Fu suona quasi come rivalsa di una nazione schiacciata. “Kung Fu, due parole. Orizzontale e verticale. Fai un errore: orizzontale. Sii l’ultimo a restare in piedi e vincerai”. Così parlava Ip Man (nome cinese Ye Wen), maestro di Wing Chun, leggendario insegnante di Bruce Lee, ma la pellicola prende ispirazione dalla biografia del celebre shifu per spaziare in un campo più vasto.
Ye Wen (straordinario Tony Leung, attore feticcio di Wong Kar-wai) nasce a Foshan, nel sud della Cina, in una famiglia benestante. Sua moglie (incarnata dal volto perfetto di Song Hye-Kyo) è una nobildonna, discendente della dinastia Manciù. Come ogni appassionato di Kung Fu, l’uomo frequenta il Padiglione d’Oro, un elegante bordello dove si incontrano i maestri più abili e dove anche le donne custodiscono alcuni dei segreti delle arti marziali. La Cina del 1936 attraversa gravi turbolenze politiche e minacce di divisione tra nord e sud. I giapponesi invadono le province del nord-est. Costretto a lasciare la Manciuria occupata, arriva a Foshan il Gran Maestro delle arti marziali della Cina del nord, Gong Baosen insieme alla figlia Gong Er (incantevole e letale Zhang Ziyi), unica erede della micidiale “tecnica delle 64 mani”, dello stile Ba Gua, creata dallo stesso Baosen.
L’incontro con Ye Wen cambierà la vita di tutti loro. I destini di Gong Er e Ye Wen si incroceranno di nuovo negli anni cinquanta, a Hong Kong. L’uomo ha perso tutto durante la guerra, la famiglia, il denaro e ha vissuto anni durissimi senza mai lasciarsi piegare dalle avversità. Infine ha aperto una scuola di Wing Chun che rapidamente conquista molti discepoli devoti diffondendo il suo stile di Kung Fu, ancora oggi insegnato e praticato nelle scuole di arti marziali di tutto il mondo. Il protagonista appare come un misto tra Ip Man e Bruce Lee. Gentile e istruito, un gentiluomo, un fine pensatore che in combattimento si trasformava, diventava un altro, feroce, quasi animalesco. Nasce ricco e fino a quarant’anni ha tutto. Poi va incontro a una serie di rovesci e di traumi durissimi, ma ogni volta si risolleva affrontando la vita con un sorriso. Il Kung Fu non è solo un allenamento fisico o uno strumento di autodifesa, ma anche una palestra per la mente e una filosofia. Molti altri personaggi intrecciano le loro esistenze con quelle di Ye Wen e Gong Er, ognuno erede e portatore di uno stile di combattimento. Il “Rasoio” (interpretato da Chang Chen), maestro di Ba Ji, uno degli stili di più esplosivi. Uomo solitario e misterioso, dal temperamento impulsivo. Patriota e idealista, è entrato a far parte della polizia segreta del governo nazionale col compito di dare la caccia ai traditori e assassinarli. Ha fama di essere spietato ma con un rigido codice morale. Dopo la vittoria comunista del 1949 riesce ad arrivare a Hong Kong, abbandona il partito nazionalista e avvia un negozio di barbiere, “La Rosa bianca”. Ding Lianshan (Zhao Benshan) vecchio maestro nato in Manciuria, lavora dietro le quinte, guidando la resistenza anti-nipponica. È ricercato dai giapponesi, e lascia intuire di avere avuto un ruolo centrale, anche se segretissimo, in eventi di portata storica. A Foshan fa il cuoco in un albergo: nessuno immagina i suoi trascorsi, né sospetta che possa avere tanta influenza.
Ma San (Zhang Jin) è maestro di Xing Yi e originario del nord della Cina. È uno dei migliori allievi di Gong Baosen e il suo successore designato. Ambizioso e assetato di potere, ricchezza e posizione sociale perderà di vista i veri valori del Kung Fu. Si spingerà al punto di collaborare con il Manciukuò, il governo fantoccio creato dai giapponesi nel nord-est del paese. I fan di pellicole come In the Mood for Love o 2046 non resteranno delusi da The Grandmaster, che è sensuale e sofisticato, gelido come il taglio del bisturi di un chirurgo. Il film tuttavia pur mostrando l’anima di un capolavoro manca di compiutezza.
Come accade spesso nei lavori di Wong Kar-wai arriva da noi sottoposto a tagli e ne soffre. 123 minuti contro i 133 della versione mostrata al 63mo festival di Berlino; 108 sono i minuti della versione americana, mentre il montaggio originale era stato di ben quattro ore. Otto anni di preparazione, quattro anni di riprese avvenute in condizioni climatiche proibitive, con gelo e piogge che hanno messo a dura prova tutti i membri della troupe. Il regista ha preteso anni di rigorosi allenamenti, quattro per Tony Leung che si è spezzato un braccio per ben due volte e adesso vuole darsi al più morbido Tai Chi arte marziale meno rischiosa e praticabile fino in tarda età. I colpi nelle sequenze di combattimento sono veri, Wong Kar-wai ha voluto che fossero pienamente autentiche. Le scene più dure ha rivelato lo stesso Tony Leung sono state quelle sotto la pioggia con le quali il film si apre. Girate per trenta notti di seguito, dalle sette di sera fino alla mattina, nel freddo, lottando con l’acqua fino alle caviglie.

venerdì 13 settembre 2013

Il Giappone visto da fuori: Pacific Rim e Wolverine: L'immortale

Sugli schermi italiani sono passati entrambi a luglio. In Giappone il primo ad agosto il secondo a settembre. Pacific Rim, firmato dall’acclamato regista Guillermo del Toro, pura adrenalina science-fiction. E la nuova avventura di Wolverine, questa volta ambientata nella terra del Sol Levante, dove l’eroe romantico tutto muscoli è diretto da James Mangold.
In Pacific Rim legioni di mostruose creature aliene, note come Kaiju (dal giapponese mostro gigantesco), sorgono dagli abissi del mare, scatenando una guerra che coinvolgerà milioni di esseri viventi, consumando le risorse della Terra per secoli a venire. Per combatterli viene ideata un’arma speciale: enormi robot chiamati Jaegers (dal tedesco cacciatore), controllati da due piloti le cui menti sono legate da un ponte neuronale.
Ma anche gli Jaegers sembrano inefficaci contro gli spietati Kaiju. L’umanità, ormai sull’orlo del baratro, si affida allora a due eroi, un ex pilota americano (interpretato da Charlie Hunnam, nella realtà attore di origine inglese) e una recluta alle prime armi (la fragile ma tosta giapponesina Rinko Kikuchi - già candidata al premio Oscar come migliore attrice non protagonista nel 2006 per Babel). Insieme, sono l’unica speranza contro l’imminente apocalisse. Nell’alleanza del titolo (a questo allude Pacific Rim che sta per l'insieme degli Stati e territori le cui coste affacciano sull’Oceano Pacifico) muoiono russi e cinesi mentre Giappone e Usa (personificati dai due protagonisti) si innamorano, conducendo gli esseri umani verso la salvezza... Parabola futuristica?
Il secondo capitolo dello spin-off della serie degli X-Men Wolverine: L'immortale parte nientemeno che da Nagasaki dove il nostro eroe salva un soldato dall’orrore dell’esplosione e grazie al suo infinito potere rigenerante esce intatto dagli effetti del nucleare. Anni dopo l’uomo, divenuto un ricchissimo imprenditore e ormai in punto di morte, vuole ripagare l’immenso debito contratto.
Ma il senso di gratitudine in lui sembra distorto e l’unico desiderio che pare avere è appropriarsi delle immense capacità di Wolverine e divenire così immortale. La luna di miele nippo-americana procede a gonfie vele e il supereroe dei fumetti della Marvel Comics in trasferta giapponese combatte la yakuza muovendosi buffamente come un gigantesco animale in una cristalliera.
A digiuno dell’etichetta orientale, pianta le bacchette nelle ciotole di riso, non si vuole inchinare di fronte alle nuove conoscenze, ignora che cosa sia un love hotel, si toglie i proiettili dal petto in un mare di sangue nei bagni igienicamente perfetti di un treno proiettile! Ma è già pronta la principessa di turno - la pallida e sottilissima ereditiera Tao Okamoto, scesa dalle passerelle per darsi al cinema - che ammansirà e addestrerà la bestia feroce. Parata di star giapponesi e coreane, Hiroyuki Sanada in testa. Gran bei combattimenti, specialmente quelli che coinvolgono Rila Fukushima, nelle vesti di Yukio, mutante rosso crinita e veggente, letale assassina del clan Yashida.


venerdì 6 settembre 2013

Il Giappone Amarcord a Venezia 1953

La 14ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia che si svolse dal 20 agosto al 4 settembre 1953 non assegnò il Leone d'Oro: nessun film venne ritenuto all'altezza. La giuria, presieduta da Eugenio Montale, attribuì invece il Leone d'Argento ad una serie di pellicole: I racconti della luna pallida d'agosto di Mizoguchi Kenji i; I vitelloni di Federico Fellini; Il piccolo fuggitivo di Ray Ashley, Morris Engel, Ruth Orkin; Moulin Rouge di John Huston; Teresa Raquin di Marcel Carné; Sadko di Aleksandr Ptushko; Bora su Trieste di Gianni Alberto Vitrotti.
Altri tempi, potremmo dire...
I racconti della luna pallida d'agosto
(Ugetsu Monogatari in originale) di Mizoguchi Kenji è una piccola perla, una storia fantastica ispirata a due racconti di Ueda Akinari L'albergo di Asaji e La lubricità del serpente. La pellicola si snoda tra illusioni e realtà, desideri e passioni. Due uomini cercano la felicità lontano dalla vita familiare e dal loro villaggio, vogliono diventare un samurai l’uno mentre l’altro vuole la ricchezza.
Ma avidità e ossessione porteranno entrambi a perdere ciò che avevano senza la possibilità di riaverlo intatto. Il samurai conoscerà le amarezze della guerra, l’altro sedotto da una misteriosa donna, ne sarà prigioniero, finché non scoprirà che si tratta del fantasma di una giovane scomparsa prima di conoscere il piacere. Un affresco storico ma anche fiabesco, precursore degli attuali horror con questo senso di mistero e ambiguità che pervade l’intera opera. Una luna bagnata di pioggia, quella pallida del 15 di agosto, notte legata per la tradizione giapponese al mondo soprannaturale.

Mizoguchi privilegia l’ottica femminile. Incantevole Lady Wakasa lo spettro che incatena il protagonista, interpretato da Kyō Machiko (celebre negli anni ‘50, attrice anche in Rashōmon di Kurosawa) donna multiforme e irreale, si muove sinuosa e spesso silente, quasi una figura del teatro Nō. Così come la moglie abbandonata Miyagi (Tanaka Kinuyo, che quello stesso anno passerà dietro la macchina da presa, seconda donna giapponese nella storia della cinematografia a dirigere un film) simbolo di estrema fedeltà, tornerà dal mondo dei morti per accogliere il marito pentito. Il terzo volto è quello di Mito Mitsuko, unica a salvarsi, seppure vittima di stupro e costretta a prostituirsi, sarà ritrovata dal marito samurai in una casa di piacere, l’uomo le chiederà perdono e si riunirà a lei.